Un calicetto con Suppé: dalmaticità d’eccellenza alla bancarella
E’ un insieme leggero, documentato e ben calibrato quello imbastito per la commedia comico-teatrale “Un calicetto con Suppè”, andato recentemente in scena a Trieste nell’ambito della Bancarella – settima edizione del Salone del libro dell’Adriatico orientale. Il pubblico, numerosissimo e partecipe, ha affollato il palco sotto le eleganti architetture del Tergesteo, per un tuffo nella storia locale con alla base alcune delle più famose musiche d’operetta e tanti intrecci con una certa “dalmaticità d’eccellenza”. In questo caso, si tratta di quella specifica di un’identità nascosta da un nome d’arte, Franz Von Suppè, fatto comprensibile se si pensa che “il nostro” si chiamava nientemeno che “Francesco Ezechiele Ermenegildo Cav. Di Suppè – Demelli”. Il compositore, che divenne il padre dell’Operetta viennese, era uno spalatino classe 1819, nato da padre belga e madre viennese, cosmopolita e incline ai tipici pellegrinaggi tra Austria, terre venete e Venezia giulia, che alcuni della sua classe sociale potevano permettersi. Non per questo, però, la sua giovinezza fu tutta semplice e nemmeno ricca, da un punto di vista strettamente economico. Franz Von Suppè, dopo aver vissuto la sua infanzia a Zara, si trasferì a Padova dove fu, in qualche modo, costretto dalla famiglia a studiare legge. Nipote di Donizetti, sin da giovanissimo la sua grande passione fu in effetti soprattutto la musica, per la quale si spese fino alle “estreme conseguenze”. La sua prima composizione fu eseguita nel 1832, poco più che bambino, in una chiesa francescana di Zara. Ebbe poi una lunga e proficua carriera che lo vedrà a Vienna fondatore di quell’operetta così caratteristica per la città austriaca e i suoi immediati “satelliti” nella quale si trasferì giovanissimo alla morte del padre. Una storia affascinante, la sua, oggetto in questo caso della messa in scena di una riedizione, riveduta e ampliata, per una produzione dell’Associazione Internazionale dell’Operetta FVG. La stessa ha pure aperto i battenti, in questi giorni, della stagione di prosa di Grado dopo una fortunata tourneè estiva. Un grande ritorno, quindi, per un personaggio che ha avuto anche decenni bui negli angoli dimenticati del tempo. Ma non è proprio questo il caso. L’idea che l’ Associazione ha avuto è quella di sviluppare un racconto di una figura storica, in chiave divertente e nello stesso momento celebrativa delle migliori arie tratte dalle composizioni delle sue operette. Tra queste, le più note come Boccaccio, omaggio all’Italia alla quale sentiva profondamente di appartenere, e La bella Galatea, che fu la risposta ironica a La Bella Elena dell’altro grande dell’epoca Jacques Offenbach, che dal mondo tedesco era invece approdato alla Francia e considerato dai più il padre dell’operetta. Le composizioni di Suppè, in generale, ebbero grande fortuna in Austria. Il compositore dalmata riuscì infatti a far rappresentare ben 30 operette e poi scrisse anche musiche di scena, opere liriche, quartetti, Lieder e musica sacra tra cui la famosa prima e acerba “Missa Dalmatica” (nome che in realtà le venne dato molto dopo alla sua realizzazione). Ancora oggi però, il nome di Suppè è indissolubilmente legato a quello delle sue effervescenti ouverture, decisamente le sue creazioni più note, eseguite molto spesso dalle orchestre di tutto il mondo; alcune di queste sono diventate particolarmente note al pubblico grazie al loro impiego in film, pubblicità e cartoni animati.
Ad impersonare dal vivo quindi una parte della sua significativa produzione a Trieste sono stati attori e cantanti di pregio come il potente e esilarante Maurizio Soldà, affiancato dagli altrettanto bravi Andrea Binetti, il tenore cui è spettato di ricoprire il fondamentale ruolo di Von Suppè e Marianna Prizzon, che impersonava la cameriera Jolanda. Tutti in piena forma, in mezzo a uno spettacolo rodato, gli interpreti in scena hanno brillato ognuno a suo modo. Carismatica e trascinante la Prizzon, leggero e vivace Binetti, divertente e convincente Soldà. A completare il tutto c’era la narrazione di Rossana Poletti che ha permesso di andare a fondo nella storia del compositore, italiano di nascita e di cultura, una delle figure artistiche più significative delle nostre terre. E di lui, oltre alle dovute premesse storiche, emerge sul palco anche il lato umano di un uomo nobile, di un artista, ma anche un avventore comune di osterie, sulle tracce dei vizi e dei passatempi così triestini e così tipici di un’epoca. L’idea dello spettacolo trae spunto dal fatto che von Suppè abitasse spesso nel capoluogo giuliano dove frequentava abitualmente l’Osteria al Pappagallo, ritrovo degli artisti cittadini. Un posto che ci immaginiamo allegro e rumoroso, in un periodo in cui i vini dalmati erano il vero collante tra i locali della città. Spogli e arredati con semplici tavolacci, passarono poi di moda verso la fine dell’800, quando alcuni gestori decisero di modernizzare gli ambienti facendo però perdere l’atmosfera originale di quelle isole di divertimento. Su questo fatto ci sono tanti aneddoti e testimonianze storiche, moltissimi divertenti. In tutto questo Soldà, che interpreta il rude oste del Pappagallo, il Sior Toma, è anche la stessa persona che ha raccolto una gran quantità di spunti, come spesso fa per animare di nuova vita i tanti suoi spettacoli su Trieste, l’Istria e la Dalmazia. Tra i tanti episodi ironici il suo personaggio ad un certo punto spiega, in un dialetto d’altri tempi, del “fresco” che voleva dipingere sul muro del suo locale. Lo stile era poca cosa, se si pensa che, sullo sfondo delle Bocche di Cattaro, figurava una barchetta con un leone di san Marco che rema. Ma l’uomo, pur senza grandi “finezze”, come tanti altri dalmati, si stava arricchendo con i suoi vini distribuiti a piene mani in città. Forse non era colto, ma non era stupido, l’oste Toma, che in fondo era a capo di quella “tribù dei papagai” che doveva far compagnia a lui e a Suppè con quelle “burle pesantucce” che venivano dispensate un po’ per tutti. Per avere un colpo d’occhio su padron Toma, qui non ricalcato pienamente ma tant’è, si pensi a un uomo molto alto, dai capelli neri e lisci, con la riga al centro, come si usava a quei tempi. Fondamentale, nell’intreccio, il ruolo dell’ingenua e vivace cameriera impersonata da Marianna Prizzon, applauditissima e dimostratasi particolarmente all’altezza delle aspettative. Con lei c’era una “pianista stagionata” vestita di rosa, Antonella Costantini, che ha suonato dal vivo e con trasporto diverse melodie. Un ruolo non di secondo piano, ma di interessante accompagnamento agli altri protagonisti del Calicetto. Le attenzioni di Suppè nella storia sono tutte rivolte alla cameriera, giovane e innamorata, ma di un altro: Danilo. Toma, in tutto questo, entra e esce dal contesto, sempre attento ai guadagni, pronto a raccontare storie, autentiche o presunte, ma comunque originali. L’intreccio narrativo è costellato dalle migliori arie del compositore. Da Boccaccio si snocciolano via via l’allegra e spensierata Canzone del Bottaio, le romantiche arie di Mia bella Fiorentina e l’Aria di Fiammetta. Ancora una presentazione del brillante uomo di lettere con l’Aria di Boccaccio e la Canzone del genio, tutta protesa ad incensare l’umore e l’intelletto : “Viva il genio il bell’umor! chi non ride ha guasto il cor; chi ben rise ben oprò, tal Boccaccio proclamò”. Sempre di Suppè da La bella Galatea, l’inno alla bellezza con La preghiera di Pigmalione. E poi ancora l’esagitato Can Can e il geniale e spassoso Duetto della Mosca dall’Orfeo all’inferno di Jacques Offenbach; c’è anche un inciso tutto operistico con la barcarola del Duetto tra Adina e Dulcamara dall’Elisir d’Amore di Gaetano Donizetti. Concludono la carrellata musicale la simpatica e grottesca Aria di Adele e il brioso Champagne dal Pipistrello di Johann Strauss; di quest’ultimo anche il valzer della più classica tradizione viennese con Maschera orsù da Una Notte a Venezia. “Forse non è cosa nota, ma alcune di queste musiche fino a qualche anno fa ancora si potevano ritrovare in famosi spot pubblicitari”- ha spiegato Poletti, dando così atto alla loro estrema musicalità. Di certo, nemmeno la complessità era minore, pur restando nell’ambito dell’Operetta. Nelle interpretazioni, tutte notevoli, hanno spiccato in particolare i duetti di Prizzon e Binetti, in particolare sulle note coinvolgenti della Bella Galatea. Ma rimarrà sicuramente impresso a molti anche un Binetti travestito da moscone, con singolari antenne e alette del caso, esilarante nei suoi tentativi di convincere la cameriera a cedere alle sue lusinghe. La bella Jolanda, per tutti Jole, sposerà alla fine il suo Danilo, con cui concepirà tre figli: Francesco, Ezechiele e Ermenegildo. E il gran finale, in cui tutti sono contenti, vedrà il nostro Suppè leggere una lettera in cui si spiega che lo vogliono con il suo spettacolo, La bella Galatea, alla Fenice di Venezia. Un trionfo e un istante di fama che porrà fine ai suoi momentanei problemi economici e ai suoi debiti nella stessa osteria tergestina che ci fa da scenario. Dopo di questo, si immagina un percorso in discesa.
Emanuela Masseria
L’Osservatore Adriatico
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