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Foto Storica Scattata Subito Dopo Lesplosione A Vergarolla

Vergarolla, una strage dimenticata

La prima strage nella storia della Repubblica Italiana, e la più grave. 

di Petra Di Laghi – 03/08/2020 – Fonte: Mediterraneo e dintorni

Domenica 18 agosto 1946. Ore 14.10. Uno scoppio assordante sulla spiaggia di Pola, in Istria, mentre sono in corso alcune gare natatorie che coinvolgono molti giovani e bambini, semina morte e feriti innocenti. Non si ha il numero esatto delle vittime, ma tra quelle identificate e sepolte (64) e quelle non identificate (una quarantina) sappiamo che si tratta della prima strage della Repubblica Italiana. E anche la più grave, sia sotto il profilo tristemente legato al numero dei morti, sia per le conseguenze irreversibili e fatali determinate sulla cittadinanza. Per comprendere bene quest’ultimo aspetto occorre comprendere e calarsi nel clima di attesa che all’epoca si vive a Pola, in cui momenti di speranza si alternano a quelli di sconforto. Siamo all’indomani della fine della seconda guerra mondiale e dalla Conferenza di pace di Parigi le notizie non sono rassicuranti. Il 3 luglio le grandi potenze propendono per un accordo che prevede il passaggio del capoluogo istriano alla Jugoslavia del generale Tito. Quello stesso generale le cui truppe, a guerra finita, per quaranta giorni avevano scatenato il terrore nell’intera regione istriana procedendo ad arresti, deportazioni, condanne e uccisioni contro chiunque fosse stato ritenuto un oppositore del nuovo regime o presunto tale. Un terrore che i polesani, nonostante i due anni di calma apparente grazie al temporaneo comando della città da parte del Governo Militare Alleato, non avevano certo dimenticato. Le occasioni di protesta contro le decisioni di Parigi sono molte. Sin dal 12 luglio è iniziata la raccolta delle dichiarazioni dei cittadini che intendono lasciare Pola nel caso della sua cessione alla Jugoslavia: su 31.700 abitanti, 28.050 scelgono l’esilio. Il 15 agosto in città viene indetta una manifestazione patriottica a favore dell’Italia nella bellissima “Arena”, l’anfiteatro romano costruito tra il 2 a.C. ed il 14 d.C. Una dimostrazione d’italianità a cui seguirà il 18 agosto la “Coppa Scarioni” indetta dalla Società Nautica “Pietas Julia”. Una folla gremita si presenta all’appuntamento, manifestando la propria adesione per celebrare il sessantesimo anniversario dell’associazione sportiva che porta l’antico nome latino della città. Sono le 14,10 e in acqua si stanno svolgendo le ultime gare natatorie previste per la mattinata. All’improvviso un boato scuote l’aria che si fa sempre più nera, mentre una colonna di fumo si innalza nel cielo. Una polvere densa pervade l’atmosfera. Ventotto mine di profondità ammassate sull’arenile per un totale di nove tonnellate di tritolo, materiale bellico apparentemente disinnescato, esplodono improvvisamente tra la folla dei bagnanti. Sulla spiaggia lo scenario che si presenta ai primi soccorsi è agghiacciante. Corpi mutilati, dilaniati e alcuni perfino polverizzati emergono dall’acqua. Brandelli di carne ricoprono la spiaggia e la pineta, mentre i gabbiani ne fanno banchetto.

Un soccorritore corre sulla spiaggia con in braccio una bambina colpita a morte

I feriti vengono portati per la maggior parte all’ospedale civile “Santorio Santorio”, dove Geppino Micheletti, l’unico chirurgo rimasto, opera per ore i corpi straziati delle vittime. La maggior parte sono bambini. Fra i volti di quei fanciulli il dottore non ritrova però quelli dei suoi due figli: Carletto di 9 anni e Renzo di 6 anni. Partecipavano anche loro alla festa domenicale, ma sono stati travolti dalla tragica esplosione. La notizia non ferma Micheletti che passa fra le corsie e poi ritorna nella camera operatoria, ripetendo che quello è ora il suo dovere.

Centinaia i feriti e forse altrettanti i morti, ma due giorni dopo solo 64 salme vengono composte nelle bare. Trentasette sono le vittime identificate immediatamente, quattro quelle da riconoscere nei giorni successivi insieme ai numerosi resti umani che dovrebbero corrispondere ad altri 17 cadaveri. Molti gli scomparsi denunciati dai parenti alle autorità competenti. Fra le salme deposte c’è anche il corpicino del povero Carletto, mentre solo una scarpa e qualche giocattolo sono riposte nella bara del piccolo Renzo, i due figli del dottor Micheletti.

“Pola è in lutto” si legge a caratteri cubitali nella prima pagina del giornale “L’Arena di Pola” il giorno seguente. Sebbene i colpevoli non vengano identificati, dietro a quel tragico “incidente”  la popolazione vede ancora una volta la pressione psicologica e gli atti intimidatori degli jugoslavi. Solo nel 2008, alla luce delle indagini di Fabio Amodeo e Mario J. Cereghio negli archivi del Public Record Office di Kew Gardens (Londra) è emerso il testo di un’informativa riguardante la strage di Vergarolla, secondo la quale l’esplosione sarebbe stata, appunto, un attentato pianificato dall’OZNA, il servizio segreto jugoslavo.

Diffidenza, angoscia, paura sono sentimenti che pervadono tutti i cittadini di Pola nei mesi successivi, in cui quella strage  indica un’unica e drammatica via per la sopravvivenza: l’esilio. Inizia così la lenta agonia di Pola che a partire dal 3 febbraio 1947 si svuota quasi completamente dei propri abitanti. Fra loro c’è anche Geppino Micheletti – l’«eroe di Vergarolla», insignito nel 1947 dallo stato italiano della medaglia d’argento al merito civile. Parte anche lui, dicendo: «Non voglio un domani ritrovarmi a curare gli assassini dei miei figli».

Da quel momento, la tragedia di Vergarolla e la storia di Geppino Micheletti rimangono per quasi settant’anni confinati nella sola memoria dei loro protagonisti. Un episodio della storia italiana a lungo dimenticato e sottaciuto. Il primo attentato terroristico della Repubblica Italiana, sebbene pochi lo sappiano e persino le istituzioni, la politica e i media lo ignorino, anno dopo anno.